1° classificato

Un tessuto fiabesco tenuto sapientemente sospeso nella terra di confine tra possibile e improbabile, tra realistico e immaginario, tra "quel che è nostro e quello che non lo è". Furclap è un racconto dipanato con sapienza in cui si respira la concretezza della terra, del vino e delle relazioni, ma che da tale materialità si estranea sempre un po', ammiccando in attesa del finale, dove l'inatteso entrerà in scena con vigore. Scritta con mano esperta, ben misurata nei dialoghi, l'originale idea narrativa lascia al lettore un sapore da delibare ripercorrendo tutte le sensazioni che lo hanno generato, come il retrogusto di un buon vino.

Stefano Talamini

Renzo Brollo

Fûrclap


Lo avevamo trovato dietro al muro di casa nostra, dove si trovava il cippo di confine. Comparso dal niente, emerso dalle zolle, sbucato dalle radici, forse stillato dalla polla della risorgiva da cui prendevamo l'acqua. Non si sa. Prima non c'era nessuno, solo bosco straniero e selvaggina sospettosa, poi c'era questo neonato. Due occhi che sapevano di luna piena e labbra sottili che non si erano ancora schiuse.

- Profuma di salice piangente - aveva detto mia madre estraendolo dalla scatola da scarpe che gli faceva da culla.
- Non ce ne sono da queste parti - aveva bofonchiato mio padre che di piante se ne intendeva. Tutti e tre ci eravamo guardati attorno, convinti di veder sbucare qualcuno da dietro agli alberi per reclamarlo. Ma non era successo e l'unico suono che avevamo sentito era stato il martellare di un picchio sopra un tronco.
- Tra poco viene notte, che facciamo? - avevo chiesto a mia madre.
- Metti su del latte, qualcosa deve pur mangiare questa creatura.
- Pensateci voi, io me ne torno alla vigna - aveva detto mio padre. - O quest'anno i tralci ricominciano a dare vino o li butto fuori e pianto fagioli.
Le gocce di latte che uscivano dal lembo attorcigliato della federa sacrificata per farlo mangiare non le aveva volute, storcendo il naso in segno di protesta. Poi era iniziato il pianto a dirotto, uno scroscio continuo di cascata imponente. Sfinite, io e mia madre avevamo riposto il bambino nella scatola da scarpe, turandoci le orecchie finché non era arrivato mio padre. Mani piene di terra e sulla fronte rughe di stanchezza alte come le onde del mare che avevo visto solo in cartolina. Dietro ai folti baffi nascondeva l'irritazione per quel rumore tremendo. Dalla credenza aveva tirato fuori l'ultimo bottiglione di vino rosso sangue, avanzato dall'ultima vendemmia prima che le sue viti smettessero di fare grappoli, e ne aveva bevuto un bicchiere intero, con foga, lasciando che gocce sanguigne sbordassero fino a macchiargli le dita. Poi aveva sbattuto forte il bicchiere vuoto sul tavolo e si era avvicinato al neonato che strillava. Aveva immerso la mano dentro alla scatola da scarpe e all'improvviso il pianto era cessato.
- Che gli hai fatto, brutta bestia? - Aveva esclamato mia madre mettendosi le mani tra i capelli e correndo da lui. Mio padre aveva grugnito soddisfatto e quando anche io mi ero avvicinata, ero rimasta sbalordita quanto mia madre nel vedere il bambino ciucciare avidamente il vino rosso dal dito ruvido di mio padre.
Lo avevamo chiamato Fûrclap, fuori dal sasso, come tutto quello che stava oltre la pietra di confine e che separava quello che era nostro da ciò che non lo era. Qualche madre di passaggio doveva averlo abbandonato, confidando che ci saremmo accorti di lui prima degli animali selvatici.
- Ne passa di gente la notte - aveva detto mio padre guardando in direzione del bosco. - Non si fermano mai, ma io li sento. Scappano, come le bestie dal fuoco. Fûrclap deve essere uno dei loro figli.
Io e mia madre avevamo contemplato quella creatura in fasce come si guarda una candela accesa durante un temporale, consolandoci con quella luce che il bambino sembrava emanare e lui ci aveva restituito uno sguardo acceso e una smorfia che ci era sembrata un sorriso. La vecchia scatola da scarpe dove l'avevamo trovato era finita dentro al fuoco e il più basso cassetto della credenza, foderato da una trapunta, era diventato la sua nuova culla. Dopo altri tentativi infruttuosi, avevamo rinunciato a dargli il latte, accolto sempre da pianti e strilli poderosi che cessavano solo quando mio padre faceva il suo ingresso in casa per stappare il fiasco di vino. Solo allora Fûrclap spalancava gli occhi curioso, cercando la fonte di quel profumo forte che si spandeva per la cucina. Le sue minuscole narici si muovevano impercettibilmente e si sarebbe detto che stesse fiutando come un cane da caccia. Erano i primi giorni di giugno, luminosi e ancora tiepidi, dopo che maggio ci aveva bagnati di piogge costanti.

Una sera mio padre rientrò più tardi del solito. Teneva lo sguardo basso e un pugno serrato come uno scrigno. Senza dire una parola si era seduto a tavola, ci aveva guardate invitandoci a sedere a tavola con lui e poi aveva schiuso il palmo.
- Guardate - ci disse e noi restammo in contemplazione del piccolo fiore fatto di minuscoli grappoli verdi che mio padre aveva portato con sé separandolo dalla vite.
- Fiorisce di nuovo. Per me era morta.
- È un miracolo - aveva sussurrato mia madre.
- No, è merito di Fûrclap - aveva sentenziato mio padre e il bambino aveva emesso un vagito tenero, come se avesse voluto rispondergli.
E così mio padre si convinse che il trovatello fosse l'artefice della rinascita delle viti.
- Non vuole il latte, beve solo il vino. Avete mai visto un altro bambino che lo fa? E da quando c'è lui i tralci hanno germogliato e ora i grappoli stanno maturando.
- Non credete che dovremmo dirlo a qualcuno che lo abbiamo trovato? - Avevo ingenuamente chiesto e per tutta risposta mio padre aveva battuto un pugno sul tavolo, facendo sussultare il neonato.
- Nessuno dirà niente a nessuno. Fûrclap è nostro e starà con noi.
- Dio lo ha affidato a noi perché lo salvassimo dai lupi e noi lo abbiamo fatto. Ma abbiamo il dovere di denunciarne il ritrovamento alle autorità. - Nel pronunciare quelle parole, mia madre si era portata una mano alla bocca, sinceramente spaventata dal tono della voce di mio padre.
- Dio non c'entra niente. Quel bambino è un frutto della vite come i grappoli, è arrivato qui per me e non se ne andrà.
Mia madre, buona donna, morigerata donna, donna timorata di Dio, era andata dal prete a confessarsi. Sentiva il cuore spaccarsi in due. Metà ardeva nella brace della compassione per il piccolo trovatello che forse non aveva più nessuno tranne noi, metà affogava nelle lacrime della sua fede che non poteva sopportare l'idea che quello che ci stava succedendo non fosse opera di colui in cui lei credeva fin da quando aveva memoria. Perché ogni cosa, dopo l'arrivo del piccolo Fûrclap, sembrava rinascere e risplendere dentro e attorno alla nostra casa, da sempre considerata uno sputo sul confine tra il bosco e i campi, tra una frontiera e l'altra. Un terreno povero, sempre più povero, dove nemmeno i fagioli crescevano volentieri. Aveva confidato nel segreto del confessionale, dove le parole salivano al cielo e poi ricadevano come pioggia di assoluzione su di lei, mentre recitava le preghiere della penitenza.
Della confessione mi aveva pregato di non farne parola con mio padre e io avevo taciuto, sforzandomi di dimenticarmene e beandomi nel vederlo sempre più sereno e la sua serenità maturare mano a mano che gli acini prendevano colore. L'estate era passata e anche Fûrclap era come maturato. La sua pelle aveva preso il rosso scuro del Merlot, i capelli erano cresciuti attorcigliandosi come viticci. Quell'autunno, mio padre aveva vendemmiato con abbondanza e la primavera successiva le bottiglie piene di vino sembravano fremere nell'attesa di farsi stappare e bere. Era venuto il tempo di preparare di nuovo le viti, mio padre aveva preso con sé Fûrclap e lo aveva portato nel campo, poggiandolo ai piedi di ogni nuova vite curata. Per la prima volta lo avevo sentito cantare mentre potava e legava i tralci, per la prima volta il cielo sopra la sua testa non era solo cupo e pronto a colpirlo con i suoi fulmini, la grandine e le saette.
Il prete venne una sera d'estate. Mi ricordo l'istante esatto in cui avevo scorto la sua tunica nera comparire all'inizio della strada sterrata che portava al nostro campo. C'era un bel tramonto in attesa di esplodere e le rondini disegnavano arabeschi sopra le nostre teste. Scorgendolo da lontano, mia madre aveva subito capito che il segreto che doveva restare sepolto dentro al confessionale non era stato taciuto.
- Le autorità sanno del bambino - aveva detto il prete con un viso colpevole, che esprimeva il suo bisogno di confessare il peccato commesso.
- Verranno domani mattina a prenderlo. Mi dispiace, ma voi capite, vero? Dovevo farlo.
- No - aveva detto mio padre. - Non capiamo. - Eravamo tornati verso casa lasciando il prete da solo. Speravo si sarebbe perso tra i filari delle viti addormentate. Fûrclap sonnecchiava beato tra le braccia di mia madre. Sembrava sazio senza aver mangiato, come se la sola vista dei grappoli quasi maturi fosse bastata a nutrirlo.
Quella sera, stesa a letto, avevo sentito mio padre consolare mia madre. Il pianto di lei a un certo punto si era trasformato in un canto sommesso, una ninna nanna alla quale, con mia sorpresa, si era unita anche la voce baritonale di mio padre.
Nanâ pipin codài,
jo i voi, ma i tornarai.
Adalt dal cîl a duâr la Lune,
duâr cun jei dentri la scune.
No sta vaî se no sarai
doman i voi, ma i tornarai.[1]
Cullata da quelle parole che sapevano di partenze e rassegnazione, mi ero addormentata, come forse anche il piccolo Fûrclap aveva fatto ascoltando i miei genitori intonarle al lume di una candela.
Non era ancora l'alba, prigioniera di una notte che non voleva andarsene, quando il rumore di un'automobile ci aveva svegliato di soprassalto. Eravamo usciti sul patio, dove ad attenderci trovammo due carabinieri e un uomo tondo come una botte.
- Siamo venuti a prendere il piccolo clandestino - aveva detto, poi era entrato in casa nostra, sfiorando mio padre come per sfidarlo. Lui e mia madre erano rimasti fermi a guardare i carabinieri, che sembrarono vergognarsi delle parole di quell'uomo orribile. Poco dopo lo vedemmo uscire a passi veloci.
- Pochi scherzi, dov'è?
- Nel cassetto più basso della credenza. Dorme lì.
- Non ho intenzione di perdere tempo. Ditemi dove lo avete nascosto. - Mio padre fece due passi verso di lui e lo guardò negli occhi.
- Non lo abbiamo nascosto. Sta dove dice mia moglie.
- Lì non c'è.

Ci precipitammo in casa, confusi e spaventati. Restammo a bocca aperta a guardare la piccola barbatella fare capolino da un lembo della trapunta. Le sue radici erano giovani ma vigorose e qualche foglia verde spuntava sulla cima, come capelli ancora sottili ma sani.
- Allora, dove sta il clandestino? - Aveva detto l'uomo tondo come una botte alzando la voce. Ma noi non avevamo parole per lui, non avevamo risposte, eccetto forse mio padre, che sfoggiava un sorriso e una luce negli occhi che da sola bastava a illuminare la stanza.
- Eccolo lì - aveva detto. - Non è una meraviglia?
- Basta prendermi per il culo - e, a un cenno dell'uomo, i due carabinieri avevano messo sotto sopra la casa, senza però trovare nulla.
Se ne erano andati a mani vuote, ma per giorni erano tornati nelle ore più disparate e avevano di nuovo messo a soqquadro tutte le stanze. Li avevamo lasciati fare, rassegnati e ancora increduli. Mio padre apriva loro la porta con un sorriso smagliante, tenendo in braccio il vaso con la barbatella interrata, finché un giorno smisero di venire.
Fûrclap venne piantato appena oltre la pietra di confine così come voleva il suo nome e in pochi anni cominciò a donare i primi grappoli. Avrebbero sfamato le genti di passaggio, che di notte continuavamo a sentire, disse mio padre. Per sé tenne alcuni grappoli con i quali otteneva ogni inverno una piccola bottiglia di succo d'uva. Ce la spartivamo a Natale quando, per tradizione, si dice che in tutte le nostre case, che ci si creda o no, entri un bambino a portare la serenità. Fûrclap divenne anche il nome del vino che mio padre produceva, che tutti da quel giorno ci invidiarono e che non mancò più sulla nostra tavola.

[1] Fai la nanna piccolino, domani vado ma tornerò. In alto nel cielo dorme la Luna, tu dormi con lei dentro la culla. Non piangere se non ci sarò, domani vado, ma tornerò.