3° classificato

Un'idea di confine che lascia campo libero perché qualcosa di imprevedibile possa accadere. Una linea che delimita, trattiene, impedisce il passo. Una sottile linea gialla. Una terra di privazione dove Daisy, la protagonista, si muove indifesa, ma fiduciosa. Attraverso il racconto fragilità, precarietà e tenerezza divengono condizione umana in assenza di giudizio morale, come ci si aspetta dalla letteratura. La narrazione scorre leggera, ma schiacciante - quasi una prosa d'anima - filtrata da una scrittura limpida e lucida. Una terra di confine capace di stupire e di emozionare, e uno sconfinamento che, intimamente, ci riguarda.

Carmen Gasparotto

Un annuncio dall'altoparlante di una stazione ferroviaria diventa cruciale per la protagonista del racconto, fragile creatura alle prese con un confine mentale, non fisico. La sua è una delle possibili storie di quella desolata umanità che tenta di sopravvivere nelle grandi città. L'autore narra la vicenda non facendoci dimenticare che anche il più misero ha una propria dignità e carattere, ed anche nei momenti peggiori può scaturire un sorriso.

Marina Dorsi

Giuseppe Filigenzi

Una sottile linea gialla

Daisy viveva a due passi dalla Stazione Termini, ma non lo sapeva. Era arrivata con un treno da Trieste centrale in un giorno di pioggia. Aveva sentito una voce dall'alto che diceva: Attenzione a non attraversare la linea gialla e lei si era attenuta alle regole. Era uscita sotto la pioggia, attraversato di corsa la strada nel traffico della capitale e si era trovata all'angolo del Caffè Trombetta. Era entrata per un cornetto ed un cappuccino. Sarebbe anche tornata indietro, ma si era accorta che c'erano delle righe gialle. Non c'è segnale di pericolo più chiaro di quello! Lo aveva detto anche la voce! Aveva cercato un attraversamento dove non ci fossero linee gialle, ma non ne aveva viste. Si era, quindi, trovata intrappolata fra Via Marsala, Via del Castro Pretorio e Via Solferino. Girava per Via Magenta, Via dei Mille, Via Varese e tutte le traverse del quartiere. Aveva spesso dormito a Piazza Indipendenza. Essendo di indole gentile, la guardia giurata la lasciava dormire nella Galleria Magenta. Anzi, non avrebbe mai chiuso la Galleria fino a quando Daisy, con i suoi stracci e i suoi cartoni, non si fosse creato un giaciglio fra il bar e la banca, in un angolo coperto dal vento.
Daisy era amabile, non sporcava, non infastidiva nessuno. Se si accorgeva che la sua presenza non era gradita, si allontanava.
Spesso si sedeva sulla panchina di Piazza Indipendenza e parlava con qualcuno; i passanti, non vedendo l'interlocutore, si allontanavano: avevano paura. Chi aveva avuto, invece, il piacere di scambiare due parole con lei, sapeva quanto fosse delicata e non la importunava. Si recava tutte le mattine alla fontanella di Via Varese, vicino ad una scuola, dove si lavava, senza sapone, come poteva. Col passare dei giorni, purtroppo, i suoi stracci e i suoi capelli erano diventati un tutt'uno con la pelle e non avevano un buon odore.
C'era un tempo in cui lei si chiudeva in bagno con due mandate, temeva di essere vista; ora invece, come il suo cane, si abbassava in un luogo poco frequentato e la lasciava lì, sul prato, all'angolo della strada, sotto un albero. C'era un tempo in cui, per pudore, non avrebbe mai scoperto le gambe oltre il ginocchio, ma anche questo era finito. Si copriva solo quando aveva freddo. Spesso si grattava, ma non lo faceva in modo plateale, sapeva che non era un gesto elegante. A volte, dei ragazzi molto premurosi la invitavano a trascorrere qualche momento nel centro d'accoglienza dietro la stazione. Li seguiva volentieri. Il problema era tornare passando attraverso quel dedalo di linee gialle che circondavano il luogo. Era costretta a interminabili giri per il quartiere prima di trovare un guado.
La maggior parte del suo tempo lo spendeva sulla panchina di Piazza Indipendenza a chiacchierare amorevolmente con i suoi fantasmi. Aveva attraversato quella terra di confine e la sua vita era stata svuotata del presente e del futuro, ma non dei suoi ricordi lontani. Un cronista sportivo de La Repubblica, passandole accanto, disse al collega: «Sai, quella... mi somiglia a qualcuno!» L'altro rispose: «Sì, a tua nonna!» Così, presi dai loro pensieri, entrarono nella redazione di Piazza Indipendenza.
Ormai nel bar della Galleria Magenta tutti sapevano di Daisy. La mattina presto, il ragazzo dietro la macchina del caffè, come alzavano le serrande, la svegliava. Portava quel dolce nettare in una tazzina di carta: a lei piaceva molto zuccherato. Lo beveva lì, fuori, sui suoi cartoni. Si fermava davanti alla vetrina del bar dove erano esposti i vini e rideva. Così un giorno il proprietario chiese al ragazzo di farsi spiegare cosa c'era di tanto divertente in quella vetrina. La donna gentilmente: «Non vedete quel vino? Si chiama Schioppettino! Non lo trovate divertente? Mi ricorda delle gran risate!» Il padrone del bar, intenerito, le disse: «Sinceramente non ci trovo niente da ridere, ma se lo vuole assaggiare, le offro un bicchiere!» «No, grazie!», rispose, «Non bevo mai al mattino! Questo vino, poi, mi fa ridere solo a leggere il nome, si immagini a berlo! Mi farebbe girare la testa!»
La moglie del pizzaiolo, una mattina, la fece entrare nel retrobottega per regalarle un paio di scarpe che lei non usava più. Le scarpe di Daisy erano ormai logore. Sentì dei Francesi che avevano appena comprato della pizza e imprecando l'avevano gettata nel cestino. Erano usciti indignati. La moglie chiese al pizzaiolo: «Perché? Che c'è che non va in quella pizza?» Il marito, da buon romano, le rispose: «Non lo so! Ma chi se ne frega, so' Francesi!» Daisy sentì di dover intervenire e spiegò: «Si lamentavano che fosse troppo piccante. Sapete, i Francesi non amano i sapori decisi!» Il piazzaiolo rispose: «Cianno messo mezz'ora a ordinà, non se capiva che volevano. Me dicevano Pippe e io ciò messo il Calabrese, quello che mi ha portato mio cognato da Tropea! Non so se mi spiego!» Daisy scoppiò in una fragorosa risata dicendo: «Pipes non è il peperoncino!» Ringraziò per le scarpe e andò via. Si sparse la voce fra i commercianti del quartiere, che l'allontanavano dai loro locali, che Daisy conoscesse il francese. Albergatori, affittacamere e venditori di souvenir spesso le chiedevano aiuto con gli stranieri e Daisy, con la sua solita eleganza, li aiutava volentieri.
C'era un negozio che attraeva sempre la sua curiosità, ma non osava entrare: il liutaio non la voleva con quel cane al seguito e quell'aspetto da barbona. Eppure un giorno, mentre serviva dei clienti e il negozio era pieno di gente, entrò per guardare un pianoforte poggiato alla vetrina che le ricordava qualcosa. Un turista americano chiese se poteva provarlo e il padrone del locale aprì la tastiera mentre cercava impulsivamente di allontanare Daisy. Il ragazzo iniziò a suonare e Daisy, avvicinandosi, lo bacchettò sulla mano sinistra: «That's not the way, my dear! Keep the hand up or you'll get easily tired!» «Are you a teacher?», chiese il ragazzo. Daisy rispose: «I used to!» A quel punto il genitore che era con lui invitò Daisy a suonare.
Il proprietario del negozio si oppose, ma la figlia intervenne: «Dai, papà, lasciala suonare!»
«Ma che deve suonà, quella nun sa manco che ora è! Me sporca il seggiolino!»
«Pulisco io! Dai, papà, l'ha chiesto il cliente!»
Il liutaio le chiese: «Daisy, ma sai per caso che ora è?» Daisy, guardandosi al polso, disse: «Dio mio! Il mio orologio. Mi ricordo che una volta mi regalarono un Cartier! Devo averlo perso!»
«Seh, il Cartier! Falla sonà, ma li stracci fuori, ché puzzano come una latrina!»
Lasciando sul marciapiede la sua giacca e il suo fardello, scoprì le braccia. Fece vibrare lo strumento come, forse, non aveva mai vibrato prima. Suonava la Fuga di Bach in Re minore senza uno spartito e non sbagliava una nota. Le voci si rincorrevano nelle sue mani e nella sua mente. Le linee melodiche si sovrapponevano in contrappunto e non si vedevano le dita che, agili e sicure, danzavano sui tasti.
Ci fu un applauso scrosciante. Daisy uscì, raccolse i suoi stracci, fece un inchino e si accomodò sulla panchina in cui era solita parlare con i suoi amici immaginari.
Il cronista sportivo de La Repubblica, che era passato mangiando un panino, basito da quella musica, le fece una foto col cellulare e spulciò nell'archivio del giornale. «Ecco chi è!», esclamò ed uscì dalla redazione per cercarla. La chiamò: «Signora Margherita!» e le corse incontro. Daisy ebbe un attimo di terrore, vide quell'uomo che la rincorreva, che agitava le mani. Ebbe paura e corse via verso la Galleria Magenta. Altri si unirono all'inseguimento. Il ragazzo del bar la vide passare con gli occhi fuori dalle orbite, il viso distorto dalla paura. La saliva che si era addensata sugli angoli della bocca era diventata una schiuma bianca che colava sul colletto e sui suoi stracci. Si trovò presto davanti alla linea gialla e dovette fermarsi. Prese in braccio Pippì, chiuse gli occhi e, incurante del traffico, attraversò di corsa quel confine invalicabile oltre il quale regnavano tutte le sue paure.
Si svegliò sotto un raggio di luce che attraversava le tende di una stanza ben arredata, le era familiare. Era stesa in un giaciglio troppo accogliente per lei e senza la sua Pippì. Scese dal letto e si guardò allo specchio della toeletta vicino alla finestra. Entrò nel grande bagno della stanza e le sembrò naturale usarlo e lavarsi in quel luogo. Si accorse che indossava mutandine di pizzo e un reggiseno che l'avvolgeva fin dietro le spalle. Trovò due ciabattine rosa, con dei pon pon che ballonzolavano mentre camminava. Scese le scale, attraversò la hall e uscì dall'ampia porta a vetri in un vasto giardino con alberi alti e vialetti cinti dai fiori. Pippì le venne incontro. «Oh, che bel cagnolino che sei! Ma sei tutta sporca di terra!» Pippì scodinzolò e si sdraiò pancia all'aria per avere le sue carezze. «Dio mio, quanto sei dolce! Ti chiamerò Pippì.»
A quel punto il giardiniere, con in mano un rastrello, gridò: «Oddio! Mi ha scavato tutte le ortensie!» e corse verso il cane. Alzando gli occhi, vide la signora in mutande e reggiseno e gridò: «Signora Margherita!»
Daisy prese in braccio il cane e corse lungo il viale. Il giardiniere la inseguì, ma una voce che urlò «Fermi!» si stese come un tuono in quel silenzio. Con calma si avvicinò alla signora. Aveva il viso sereno, con la barba curata, era giovane, attraente. Daisy si sentì al sicuro e una voce che sembrava un canto le disse: «Mamma, dove vai?» Lei sorrise, lo guardò e rispose: «Ma io sono Daisy!»
«E io sono Clark!»
«È un piacere conoscerla!»
I primi giorni aveva mangiato qualcosa dai Salesiani di Via Marsala, ma col tempo si era fatta degli amici. La moglie del pizzaiolo all'angolo di Via dei Mille l'adorava. Quando la vedeva passare con Pippì, una cagnolina che da qualche tempo la seguiva, la chiamava: «Signora Daisy, venga, si sieda qui con me! Mangi un pezzettino di pizza!». Lei rispondeva sempre: «Grazie, Signora, lei è tanto gentile, ma io non posso pagare! Non ho soldi con me. Devo aver lasciato la borsetta in albergo!» La signora, toccata, insisteva: «Ma le pare, per così poco! Pagherà un'altra volta!». Daisy divideva il trancio di pizza con Pippì, ringraziava e continuava a vagare all'interno di quel confine mentale che la faceva sentire sicura.
«Oh, Mrs. Daisy, lei non sa che gioia averla ritrovata!»